Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

giovedì 31 luglio 2025

Numero 475 - Il gioco dell'estate (con le parole) - 31 Luglio 2025


 IL GIOCO DELL'ESTATE


Ma si può stare senza giocare con le parole?
Per chi ama scrivere, farlo sempre e comunque è un'esigenza.
E quindi ecco un giochino facile facile (non è vero) per tutti voi.

Cosa dovrete fare?

Dovrete scrivere un racconto a piacere, inserendo i titoli delle pubblicazioni firmate Edizioni Convalle, uscite nel 2024.

Regole:
- tutti (compresi gli autori delle opere alle quali si riferiscono i titoli) possono partecipare alla gara dell'estate.
- i titoli devono essere riportati esattamente come sono.
- tutti i titoli devono essere presenti nel racconto.
- lunghezza massima del racconto: 800 parole.
- il racconto non deve contenere nessun riferimento alla storie legate ai romanzi dei quali useremo i titoli. La storia deve essere inventata in toto.
- il racconto va inviato a steficonvalle@gmail.com in allegato word.doc ENTRO il 31 agosto 2025.


I racconti verranno postati nel blog, qui di seguito, in ordine di arrivo e potrete commentarli.

Nella prima diretta del giovedì di settembre (in data da definire) nella Pagina FB di Edizioni Convalle, verranno annunciati i primi tre classificati.

Di seguito, i titoli delle opere pubblicate nel 2025.
Saranno da inserire nel testo ESATTAMENTE come sono. Quindi dovrete scrivere una storia dove si possano armonizzare nella narrazione.

ESEMPIO:
Faccio un esempio con un titolo di una mia vecchia opera. Il sole delle cinque. 

Maria camminava nella piazza senza pensare a niente, dopo quello che era accaduto. Il sole delle cinque, in quel pomeriggio d'autunno, contribuiva a creare un'atmosfera malinconica ma allo stesso tempo di quiete assoluta. Di pace.

(In questo caso, Il sole delle cinque parte con la maiuscola, ma in caso voi inseriate il titolo all'interno di una frase, scriverete con la minuscola: il sole delle cinque.)


ECCO I TITOLI:

- Volevo solo avere più tempo
- Natalì
- Cercando un nuovo altrove
- Ero invisibile
- Le crepe dell'amore
- Maestri di scuola e di vita senza tempo
- Lo specchio convesso
- Il coraggio di scegliere
- Verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti
- Cadeva la neve
- Seduti allo stesso tavolo
- Spacco tutto

Ora tocca a voi.
Vi aspetto e condividete con gli amici e conoscenti che amano scrivere, più siamo e più ci divertiamo. Giusto?


I RACCONTI COMINCIANO AD ARRIVARE...


Il muschio, il tavolo, la neve
di
Enrico Zaghini
 
In un luogo astratto, il Tempo, lo Spazio e il Luogo stavano  cercando un nuovo altrove dove ci sono maestri di scuola e di vita, senza tempo, e senza un’idea precisa di quei percorsi che portano a maturare le persone.
Erano seduti allo stesso tavolo e discutevano da un tempo infinito, come se fossero abbarbicati a quel tavolo come sulla roccia sta  il verde muschio, mentre stavano cercando di sfoltire il sottobosco dei sentimenti.
Non faceva differenza, per loro — i "maestri" — se l’argomento trattato fosse l’amore, la politica da due soldi, l’amicizia o la fame nel mondo.
Loro, i "maestri", discutevano della vita attraverso lo specchio convesso delle loro personali convinzioni, a volte astruse.
Nello stesso momento, a mille miglia da quel tavolo dove non si sa decidere, Natalì stava cercando di capire dove e come si fossero formate le crepe dell’amore che stava perdendo.
Sicuramente pensava che le mancasse il coraggio di scegliere la strada migliore per lei.
Volevo solo avere più tempo per decidere? sussurrava a se stessa  mentre fuori dall’uscio, senza il minimo brusio, lenta cadeva la neve.
Luigi, in quell’angolo tondo della stanza — ero invisibile per Natalì — in quel momento osservava la sua tristezza salire fino all’orlo del bicchiere.
Non poteva far traboccare l’inesistente bicchiere.
Si alzò, mentre pronunciava parole definitive: «Sto perdendo tempo, Natalì. Me ne vado. O spacco tutto

§§§

Il racconto di 
Maura Hary

Natalì
ti fissavo nei tuoi occhi verde muschio.
Il sottobosco dei sentimenti si agitava dentro di me.
Volevo solo avere più tempo per trovare, una volta per tutte, il coraggio di scegliere, perché lo so che per te ormai io ero invisibile: non sarebbe bastato lo specchio convesso per mostrarti le crepe dell’amore che mi hai procurato.
Fuori cadeva la neve e noi eravamo di nuovo seduti allo stesso tavolo quando tu mi hai trafitto:
«Sto cercando un nuovo altrove
Ci risiamo, pensavo, poi subito hai aggiunto: «Lo sai cosa vorrei? Maestri di scuola e di vita senza tempo. Ecco cosa mi manca!”
“Ah! Adesso li chiami così… ora però basta: questa volta spacco tutto!”

§§§


Libera
di
Sandra Morara

Ma, dico io, nella vita, si può cambiare idea o no?
Certo che si può!
Quel giorno lì, forse che a un certo punto, tra le crepe dell’amore può nascere il verde muschio, il sottobosco dei sentimenti. Quelli buoni, ma anche quelli che ti manca l’aria, ti soffocano e a quel gioco perverso proprio non ci stai più, e allora lui: il giudizio tramortito, ma non ancora morto. E lei: la voglia di rivalsa, la voglia di darci un taglio, di ribellarsi e di vivere, seduti allo stesso tavolo, si guardano in faccia, contano i magoni e le lacrime, il colore del sangue e le sfumature dei lividi, tirano le somme e nessun dubbio 1+1 a casa mia fa sempre 2, e mica ci vogliono maestri di scuola e di vita senza tempo a tirare le somme e le conseguenze.
Natalì, vuoi che la notte ha dormito male – la pancia, i piedi, il fiato di quel torturatore seriale sulla sua pancia, sui suoi piedi, sul suo fiato – vuoi che in quel po’ che ha dormito, ha sognato un simil principe azzurro e quasi quasi ci cascava – e certo volevo solo avere più tempo per cascarci – pensa sfacciata, ma si sa, i sogni muoiono all’alba e l’alba – ahimè – si è smorzata da un pezzo e, inutile dirlo – e soprattutto come non capirlo – si è alzata con la luna storta, il piede sbagliato e pure il trillo malefico dei minuti di controllo ci ha messo del suo – sì, perché – e prega il cielo che non ti venga un attacco di colite – se ti attardi un attimo in più in bagno, lui batte sulla porta con i pugni e urla infuriato – esci o spacco tutto!
E mentre ti guardi allo specchio convesso – che il terrore ti strabuzza la vista dentro agli occhi, ti vedi sformata, piegata, decapitata, annientata – che questo certo non è amore e si è frantumato l’incantesimo.
Incredibile, ma vero, quel momento è arrivato.
Finalmente il coraggio di scegliere la cosa giusta.
E se prima ero invisibile dentro a quel buco nero che era diventata la mia vita, adesso, all’improvviso un raggio di sole, un arcobaleno.
Be’, sole… In effetti fuori cadeva la neve, e di sicuro, cercando un nuovo altrove, avrei dovuto pensarci per tempo e fare le cose come Dio comanda, e invece tutto di fretta e buonagrazia. Perché le occasioni bisogna saperle cogliere. E quando lui, come sempre pentito e lacrimoso, giura che mai più e – Cara, preparati a festeggiare. Vado a comprare un mazzo di fiori, una bottiglia di Prosecco e torno subito – e nella foga – tutti i Santi del Paradiso vi ringrazio – si è scordato di chiudermi dentro con le solite quattro mandate, non ci ho pensato due volte, ho colto la palla al balzo e sono scappata.
Praticamente in mutande eh – per non parlare delle ciabattine infradito, che m’infradicio tutta, mi becco la polmonite e passo pure per matta.
Ma sono libera. E sai quanto me ne frega!

§§§

Cambiare alla ricerca delle cose semplici
di
Linda Silvia Scarpenti
 
Volevo solo avere più tempo, continuavo a ripetermi.
Un desiderio che, in qualche modo, mi accompagnava da anni, come una nenia che non riuscivo a togliermi dalla testa.
Il tempo per cambiare, per fare meglio, per non permettere che la vita mi scivolasse addosso senza lasciare traccia.
Ma quel tempo non arriva mai; o, forse, arriva solo quando non lo cerchi più.
Eppure, in quei momenti di silenzio in cui il cuore sembrava battere più forte e l’aria si faceva densa di pensieri, sentivo che il mondo intorno a me stava cambiando. E, per quanto mi sforzassi di cambiare anch’io – cercando un nuovo altrove, un luogo in cui non essere più prigioniero dei miei rimpianti – restavo immobile, come se qualcosa mi trattenesse lì, esattamente dove non volevo più stare.
Natalì era sempre stata la luce, la persona che riusciva a farmi vedere la bellezza anche nei luoghi più oscuri. Ma, nonostante l’affetto che ci legava, qualcosa tra noi era andato perso.
Mi chiedevo spesso che cosa fosse successo, se fosse stato il tempo a consumarci, o se fossimo stati noi a non capire quanto valesse la pena di lottare.
Ricordo ancora il giorno in cui mi guardò e mi disse, con quel tono quasi distaccato che mi spezzò il cuore: «Ero invisibile… Lo sono da tempo, ormai, vero?»
Una frase che conteneva un frammento di verità, e che proprio per questo, nel sentirla, ho capito che un’intera vita insieme era davvero finita.
Invisibile. In quella parola c’era tutto. Da allora, Natalì non è mai più riuscita davvero a farsi vedere da me.
Le cose tra noi non furono mai più le stesse.
Le crepe dell’amore erano ormai diventate solchi profondi, che di lì a poco avrebbero inghiottito le nostre speranze e il nostro futuro.
Ogni volta che cercavo di ricomporre i pezzi, qualcosa mi sfuggiva di mano. Come se il nostro amore fosse fragile, un vetro sottile che ogni volta che provavo a toccarlo si frantumava. Fuori cadeva la neve, e io dentro mi sentivo sempre più distante da lei.
Seduti allo stesso tavolo, le parole che avremmo voluto dirci non arrivavano mai.
Ci guardavamo, ma i nostri occhi non si incontravano più. Era come se ci fosse una parete invisibile tra di noi, una barriera che avevamo eretto nel tempo senza quasi accorgercene. Eppure, in quei momenti di silenzio, sentivo il peso di ogni parola non detta, di ogni gesto mancato.
Non c’era più modo di tornare indietro, non senza affrontare quella verità che, riflessa dentro lo specchio convesso in cui continuavamo a guardarci, appariva distorta e irriconoscibile.
Ma non volevo arrendermi, anche se sapevo di aver bisogno di qualcosa di più grande di me per riuscire a non soffocare del tutto.
Spacco tutto, era la frase che rimbalzava chiusa negli angoli più nascosti della mia mente, mentre cercavo di trovare una via di fuga. Ma il coraggio di scegliere, di ricominciare da zero, non era facile.
Mi sembrava di essere un esploratore nel verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti, un luogo oscuro e intricato, dove ogni passo richiedeva attenzione, ma dove la bellezza delle cose semplici aveva un valore inestimabile.
Ma quando capii che la soluzione era dentro di me, allora qualcosa cambiò.
I maestri di scuola e di vita senza tempo, e spesso incontrati nei momenti più inattesi, mi avevano insegnato che le risposte non arrivano sempre quando le cerchi. A volte, è il tempo stesso a decidere quando sei pronto ad accoglierle.
E nel silenzio di quella notte, mentre la neve continuava a cadere e il vento trascinava via i miei pensieri, compresi che il vero coraggio di scegliere sta nella forza di affrontare le nostre paure, i nostri errori, e – soprattutto – nel non dimenticare mai che, alla fine, abbiamo sempre dalla nostra parte la possibilità di cambiare. Perché è tutto ciò che davvero ci resta.

§§§

A te
di
Tatiana Vanini

 
Natalì,
che bello il tuo nome. Quando ci siamo conosciute, ho pensato subito che il destino ci avesse fatte incontrare. Amo il Natale e in te ho trovato un’amica sincera, un’anima affine. Era giusto che una persona con cui sto così bene portasse nel nome il periodo dell’anno che preferisco.
Stai leggendo la mia mail, l’ho scritta per spiegarti quello che ho fatto, ma soprattutto il perché. Te lo devo.
L’anno scorso ho fatto un controllo di routine. Sai che lo faccio sempre, perché sono un po’ ipocondriaca e mi aspetto ogni volta di scoprire che ho un tumore. Sono andata a fare gli esami e quando il medico mi ha chiamata per il verdetto, già mi immaginavo mentre gli dicevo "Accidenti, sto morendo". Volevo solo avere più tempo. Invece no. Stavo benissimo, in perfetta forma e sono uscita dallo studio con i complimenti dello specialista.
Sulla strada di casa ho visto una locandina che pubblicizzava un evento letterario in una libreria: la presentazione della silloge poetica di un collettivo di autori che si definiva Maestri di scuola e di vita senza tempo. La libreria era vicina, così sono andata alla presentazione e, a fine dell’incontro, ero così ammaliata dalle parole che avevo udito da comprare il libro. Da non credere: io con un libro di poesie! Una cosa davvero bizzarra, inusuale, che mi ha resa felice. È stata la prima volta che ho pensato quanto fosse bello evadere dalla quotidianità facendo qualcosa di diverso.
Ero ormai arrivata a casa, stavo per attraversare la strada e arrivare al portone del mio palazzo, quando lo specchio convesso davanti a me, che serve per mostrare se la strada è libera a chi esce da un garage lì vicino, mi ha fatto vedere qualcosa che non avrei mai immaginato: piccolo, ma inconfondibile con il suo cappotto viola, c’era mio marito in compagnia di qualcuno. Lasciando perdere l’immagine sono corsa nella sua direzione, arrivando abbastanza vicina da vederlo baciare una sconosciuta. Il primo pensiero è stato: Adesso li raggiungo. Faccio una scenata. Spacco tutto.
Invece no, sono tornata a casa e mi sono messa a preparare la cena.
Più tardi, seduti allo stesso tavolo per un pasto che non mi dava alcun piacere, dove non c’erano parole, né empatia e il silenzio era solo vuoto senza complicità, ho capito che per lui ero invisibile.
Quando più tardi, dopo il solito intermezzo televisivo, è andato a letto, io sono rimasta alzata. Ho fissato il vuoto per un po’, poi ho preso la silloge che avevo comprato poche ore prima e ho letto alcuni componimenti. Uno mi ha colpito: Verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti. Sembrava mi parlasse, che scavasse le crepe dell’amore che si erano formate nel mio cuore davanti al bacio traditore, trasformando anni di vita insieme in frammenti acuminati che mi facevano male, tanto male.
Ho smesso di leggere e mi sono avvicinata alla finestra. Cadeva la neve. Immagini la mia sorpresa di fronte a quello spettacolo? Senza pensarci troppo ho deciso di fare qualcosa di folle: uscire, coperta solo da giacca, stivali e cappello e immergermi in quella nevicata notturna, da sola, senza bisogno di avvertire qualcuno, perché mi andava di farlo.
Appena scesa in strada sono stata colpita dal silenzio, dalla quiete e da quell’aria fresca, ma non fredda. Ho respirato a pieni polmoni e cominciato a camminare, stupendomi a ogni passo, riscoprendo la mia città che sembrava più bella man mano che il manto bianco cresceva. La neve cadeva emettendo un rumore che pareva musica, la luce dei lampioni, aranciata e avvolgente, faceva sembrare tutto magico. In quella passeggiata senza obblighi né doveri, ho trovato il coraggio di scegliere. Ho messo me stessa davanti a tutti: ai doveri, a mio marito, alla famiglia, agli amici.
Follia momentanea? No, perché nei giorni successivi ho programmato la mia fuga, cercando un nuovo altrove.
Sono partita, con una valigia leggera e dopo aver svuotato il mio conto in banca. A gennaio ho cambiato la mia vita; a dicembre ti mando questa mail.
Natalì, scusami per essere sparita, per essere stata egoista. Puoi perdonarmi? Ti lascio il mio nuovo indirizzo e un biglietto d’aereo aperto. Se vuoi raggiungimi, passiamo il Natale insieme, ritroviamoci.
Ti abbraccio forte,
la tua amica Renata, che una notte, sotto la neve, è rinata.

§§§

All'alba di agosto
di
 Maria Rita Sanna
 
Le mattine di agosto hanno una luce più sincera, non c’è più quella strana foschia del caldo torrido che confonde i colori e la mente. Ora vedo chiaro dove voglio andare: io, Natalì, ho finalmente trovato il coraggio di scegliere.
All’alba di questo nuovo giorno vado via, quando leggerai queste due righe che ti lascio sarò già lontana, cercando un nuovo altrove. È strano, sai, parlarti senza averti di fronte, dirti ciò che sento in totale libertà senza essere interrotta o addirittura accusata di volerti sopraffare.
Ricordo che le crepe dell’amore, il nostro grande amore, si sono manifestate un giorno d’inverno. Il cielo era cupo ma non cadeva la neve, no – nemmeno niente dal cielo, peraltro – ma cadevano tanti piccoli petali bianchi, candidi e lucenti come la neve: erano i fiori dei mandorli. Cadevano sull’erba verde muschio, il sottobosco dei sentimenti, così la chiamavi per quante volte ci siamo rotolati sopra insieme. E proprio quel giorno, sul verde spruzzato di bianco, mi hai detto che mai avresti voluto una vita migliore per me; perché qui avevo tutto, un giardino da curare, una casa dove abitare, un uomo da amare. Questa era la felicità che tu sognavi -  volevi - per me. Come un campanello d’allarme, è risuonata nella mia testa la domanda: ma io, che cosa voglio? Avresti dovuto domandarmelo tu, ma non l’hai fatto perché per te ero invisibile, l’ho capito solo dopo molto tempo.
Anche se siamo stati seduti allo stello tavolo condividendo tanti e tanti pasti, non riesco a capacitarmi di come le lezioni dei tuoi amati maestri di scuola e di vita senza tempo non abbiano impregnato il tuo animo d’amore per il prossimo.
Ecco, l’ho detto, l’ho scritto: sei egoista.
L’ultima crepa ha posto la parola fine sul nostro amore, adesso spacco tutto e me ne vado. Dopo tanti giorni di caldo africano è arrivato il Maestrale a indicarmi la via di fuga, controvento, contro ogni convenzione.
Mi vedo, sai, nel tuo specchio, sì lo specchio convesso in cui ti rifletti per farti la barba e ho visto la verità, la tua verità: tu al centro in dimensioni reali e io dietro rimpicciolita come una formica. La mia verità è, invece, una donna che si allontana, sempre più distante dal punto focale del tuo specchio, dal tuo maledetto Io.
Volevo solo avere più tempo per prepararmi come si deve, con calma, come si conviene alle persone civili. Ma qui non è questione di civiltà o di rispetto, no, qui è tempo di agire, partire, lasciare le abitudini; non lasciare spazio a indugi, a ripensamenti.
L’alba è già sul cielo a riflettere di rosso i vetri delle finestre; sento i tuoi rumori, mi cerchi fra le lenzuola. Basta, davvero, vado via.
È l’ora dell’amore, dell’amo me. 

§§§

La rinuncia
di
Antonella Brioschi
 
Quel giorno cadeva la neve, soffice creava un paesaggio suggestivo.
Ero felice, stavo tornando a casa da te quando ti ho vista, Natalì.
Tu, mia moglie, camminavi abbracciata a un altro uomo, ti ho vista attraverso lo specchio convesso.  Non ti sei accorta di me, eri al di sopra di tutto, stavi cercando un nuovo altrove. Da mesi ormai ero invisibile, nei tuoi occhi color verde muschio non c’era più alcun sentimento per me.
Sono rincasato nella nostra casa dove tutto mi parla di te… I nostri mobili scelti per il nostro nido d’amore; le nostre fotografie sparse ovunque testimoni della nostra felicità. Mi guardo intorno e sento le crepe dell’amore che entrano nel mio cuore ferito. Dove sei, Natalì? Ti ho persa, "perché ti sei innamorata di un altro?" vorrei urlare.
Una furia cieca mi assale, spacco tutto,  poi mi calmo. Mi siedo e decido, mentre ti aspetto, di leggere alcune poesie di un libro che abbiamo sempre amato: Maestri di scuola e di vita senza tempo.
Ti amo, Natalì, e con te volevo solo avere più tempo per farti innamorare ancora di me.
Stasera, seduti allo stesso tavolo, ho il coraggio di scegliere.
“Se ti sei innamorata di un altro, ti lascio libera di stare con lui, ti amo troppo per saperti infelice con me. Se l’altro uomo può darti quello che non vuoi più da me,  ti lascio a lui.”
Natalì guardò negli occhi suo marito e vide tristezza ma anche forza nella rinuncia.
Non lo amava più ma lo ammirava, aveva avuto il coraggio di scegliere per lei.

§§§

Che ci fai ancora qui?
di
Cesare Sordi

 

Spacco tutto! dissi, entrando nel ristorante e vidi i miei amici tutti seduti allo stesso tavolo.
Natalì, che ci fai ancora qui?
Tutta la notte avevo sofferto per le crepe dell’amore che mi stavano tormentando da diverse settimane.
Natalì, volevo solo avere più tempo per raccontarti la mia vita e i miei problemi, ma a un tratto mi sono accorto che per te ero invisibile.
Mi ricordo con tristezza quando la mia giornata aveva preso un colore nuovo, come un verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti stava mutando la mia vita e non mi dava il coraggio di scegliere.
In casa c’era ancora lo specchio convesso che mi avevi regalato insieme a tutti quei libri che sono stati per me maestri di scuola e di vita senza tempo.
Addio, Natalì.
Cercando un nuovo altrove alzai lo sguardo verso la finestra e sorpreso vidi che cadeva la neve.

§§§

La tua vita
di
Barbara Galimberti

 

Quella tua vecchia Panda verde era sul bordo della strada. La portiera aperta, le chiavi inserite nel cruscotto, il motore freddo e silenzioso. L’avevi abbandonata lì, senza il minimo riguardo. Eppure, era la nostra macchina, quella che ci avrebbe dovuto permettere di andare lontano, verso la nostra vita insieme.
Ovunque mi girassi cadeva la neve. Fiocchi candidi e immacolati sembrava volessero avvolgermi.
Dov’eri? Forse ti eri solo rannicchiata dietro qualche tronco cercando un nuovo altrove, solo per noi due, come spesso sussurravi abbracciandomi.
Ti è sempre piaciuto giocare nascondendoti e io mi divertivo a ritrovarti. Alla fine, stremati per le lunghe corse e le risate, ci riposavamo seduti allo stesso tavolo in quel piccolo bar celato tra gli alberi, a ridere dei tuoi buffi scherzi.
Anche quel giorno corsi verso il tuo amabile e devastante infinito. Passo dopo passo, sprofondai con forza in quella immensa pianura bianca. Le gambe erano sempre più pesanti, mentre cercavo con tutto me stesso di riunirmi a te. Non riuscivo a respirare, il freddo mi soffocava. Scosse ghiacciate si impadronirono del mio corpo. Vidi solo qualche traccia di verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti del nostro immenso amore, che a tratti illuminava quel silenzio latteo.
Quante volte zia Natalì e i nonni ci avevano cercati tra quegli abeti maestosi. Ci rimproveravano con severità, per il “nostro comportamento non idoneo alla società”, così urlavano nel silenzio di quel luogo magico e profondo. Maestri di scuola e di vita senza tempo. Ma noi eravamo felici.
Volevo solo avere più tempo per poterti amare, per proteggerti dal buio. Volevo avere solo più tempo…
Non mi ero accorto di nulla, eppure era tutto così evidente. Le crepe dell’amore erano lì davanti a me, ma la mia cecità era ancora più profonda. L’esistenza che pensavo di vivere era in realtà offuscata dal dolore, il tuo.
Lo specchio convesso della vita non mi aveva mostrato la verità; se solo avessi smesso di guardarlo. Ho preferito vedere solo la falsa immagine che ogni giorno avevi deciso di mostrarmi. Forse ero invisibile per il tuo cuore, troppo chiuso in sé stesso.
Solo quando ti ritrovai, distesa su quel manto bianco, come una sposa pronta alla sua nuova vita, capii con quanta forza i tuoi oscuri e misteriosi pensieri avevano preso il posto dell’amore.
Il tuo esile braccio ormai ghiacciato era distante da te, come per allontanarsi da quel feroce dolore.
Tra le dita socchiuse qualche pillola coperta di neve.
Il coraggio di scegliere, mi stavi sussurrando per l’ultima volta.
Goccioline si erano posate sulle ciglia dei tuoi occhi semichiusi, ormai spenti.
Un biglietto: vivi la tua vita, ti amo.
Il bosco che amavamo aveva assunto una forma senza confini.
Spacco tutto, pensai. Nulla deve esistere senza di te.
Fredde lacrime solcarono il mio viso, mentre ripresi il cammino verso una nuova esistenza.

§§§

Senza titolo
di
Tiziana Mazza


Cadeva la neve da ormai tre giorni, il paesaggio era da cartolina. La neve era intonsa e talmente soffice da sembrare panna montata, sarebbe stato fantastico se solo Alina non avesse finito la legna tagliata da mettere nel camino.
Era isolata.
Sola in un paesaggio da fiaba, come in una di quelle che la nonna soleva raccontarle nelle fredde serate d'inverno, quando tutti in famiglia si radunavano per la cena, seduti allo stesso tavolo, a condividere cibo e racconti avventurosi, inventati e non, ma sempre affascinanti. Ricordi che bruciavano come la legna che avrebbe voluto ardere per scaldarsi. Le mani chiuse a pugno nel tentativo di far giungere un po' di sangue alla punta delle dita, ormai insensibili come il suo cuore indurito dalle mille ferite che la vita da adulta le aveva inferto. Le crepe dell'amore, le chiamava, dell'amore mancato a causa di Natalì, la sua migliore amica... La sua ex migliore amica.
Alina si guardò dentro lo specchio convesso sulla mensola davanti a lei. Ero invisibile, pensò con amarezza,  invisibile agli occhi di Alessandro che stravedeva per la sua amica, invisibile agli occhi di Natalì, a cui importava di lei solo quando le passava i compiti. I dolori giovanili erano stati per Alina maestri di scuola e di vita senza tempo, l’avevano fortificata trasformandola in un’altra persona: risolta, sicura di sé, autonoma. Cercando un nuovo altrove, aveva trovato il coraggio di scegliere nuovi amici, nuove aspirazioni, una nuova vita. Aveva smesso di vestire di nero, così lugubre come i pensieri che l’avevano accompagnata negli anni dell’adolescenza, ora il suo colore preferito era il verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti  che provava per Marcello aveva infatti il colore della speranza, come la speranza che nutriva in quel momento che lui le venisse in aiuto.
In risposta alla sua muta richiesta, sentì bussare alla porta. La aprì. Sulla soglia si stagliava la figura imbacuccata del suo innamorato con una grossa accetta in mano.
«Non c’è più legna» mormorò Alina, mostrandogli la legnaia vuota.»
Lo sguardo di Marcello corse ai grossi alberi all’esterno, che sembrava aspettassero solo di essere tagliati. 
«Non ti preoccupare, Alina, ci penso io.»
«Ma come farai?»
Marcello sorrise, alzò l’accetta e disse: «Semplice, spacco tutto

§§§

Un inverno buio
di
Marta Martello
 
 
Quante volte avevo pensato spacco tutto, ma poi il buonsenso mi impediva di fare gesti di cui mi sarei pentita.
Natalì mi osservava con i suoi occhi ingenui e curiosi.
Ne aveva viste tante in quei mesi, dove le crepe dell’amore avevano minato la mia relazione con suo padre. Nel silenzio che seguiva ogni discussione mi sentivo smarrita: immaginavo intorno a me il verde muschio, il sottobosco dei sentimenti che mi faceva rivedere tutta la nostra storia con occhi nuovi, consapevoli.
Seduti allo stesso tavolo cenavamo come fanno gli estranei, ognuno con lo sguardo sul proprio piatto. Peggio ancora: lui leggeva notifiche e messaggi sul cellulare. Cercavo di intavolare una chiacchierata, ma mi rendevo contro sempre di più che per lui io ero invisibile.
Come lo specchio convesso la mia vita mi appariva distorta.
Ogni sogno, ogni desiderio condiviso con il padre di mia figlia stava naufragando. Nemmeno il manuale di Maestri di scuola e di vita senza tempo, acquistato in libreria pochi mesi prima, sarebbe stato in grado di darmi consigli utili a sanare una situazione ormai alla deriva.
Il nostro tempo si stava esaurendo, ormai il suo interesse era fuori da noi. Un’altra donna lo stava aspettando.
Volevo solo avere più tempo per trovare il coraggio di scegliere.
Invece, era stato lui a decidere. Cadeva la neve il giorno in cui mi aveva lasciata.
La rinascita era iniziata cercando un altro altrove, poi avevo scoperto che il mio altrove si trovava a pochi passi da me: mia figlia che osservava, preoccupata, il mio viso rigato da una lacrima sfuggita al controllo.

§§§

Un uomo diverso
di
Elisabetta Motta
 

Volevo solo avere più tempo, Natalì. Sì, solo più tempo per ritrovare me stesso. E ci sono riuscito. Come? Cercando un nuovo altrove. Lo so, non è stato facile, anche perché ero invisibile. Mi sentivo davvero trasparente agli occhi altrui e tutto per colpa di un amore sbagliato. E me ne rendo conto soltanto adesso, sai? Ma l’importante è averlo capito. Si dice: meglio tardi che mai, no? Il mio cuore era ferito; sono queste le crepe dell’amore. E le mie erano profonde. Ma adesso sono guarito. L’ho imparato a mie spese, soffrendo… certo, ma almeno l’ho imparato. Mia nonna me lo diceva sempre: l’amore rende ciechi. Ah, i nonni! Maestri di scuola e di vita senza tempo. È l’esperienza del vissuto a renderli così. Io invece guardavo la realtà attraverso lo specchio convesso dei miei stessi occhi e mi risultava tutto distorto. Non me ne rendevo conto, però. Poi, a un tratto, ho capito. Ed è stato difficile prendere la decisione; a volte bisogna avere il coraggio di scegliere.
E adesso passeggiando nel bosco con te, il mio cuore è ormai guarito; e qui, circondato dalla natura, assaporo finalmente la pace della mia anima e in questo paesaggio verde muschio, analizzo il sottobosco dei sentimenti. Mi sento felice come quando da bambino cadeva la neve e noi tutti in famiglia, seduti allo stesso tavolo, condividevamo un pasto e la gioia di stare insieme.
Vorrei tornare a quei tempi. Lo so, non si può. Ma sono consapevole di essere una persona diversa, sono cambiato dopo questo amore sbagliato. E adesso, quando mi assale il ricordo, non soffro più; anzi sono così arrabbiato che spesso mi dico: spacco tutto! Ho distrutto in questo modo le mie pene del cuore.  

§§§

Inseguendo un sogno
di 
Graziella Braghiroli

 

«Devo andarmene, altrimenti spacco tutto!» 
Marta si ripeteva questa frase come un mantra mentre chiudeva piano la porta di casa. Aveva infilato nello zaino qualche vestito, un album da disegno pieno di schizzi e un biglietto per Parigi comprato di nascosto due settimane prima.
Suo fratello Andrea studiava lì, architettura. I suoi genitori era molto fieri di lui, mentre quando lei aveva detto che voleva studiare arte, dipingere e vivere tra tele e colori, le avevano detto di svegliarsi e di trovare un lavoro vero.
Così se ne era andata cercando un nuovo altrove.
«Ero invisibile per loro che si credono maestri di scuola e di vita senza tempo, ma si dovranno ricredere.»
Arrivò a Parigi  che albeggiava. Le erano rimasti ancora pochi euro e si fece portare a casa di suo fratello, al Quartiere Latino. Andrea la accolse sbalordito ma non la criticò. Le disse solo: «Convincerò mamma e papà a lasciarti qui, ma devi fare sul serio, Marta. Devi avere il coraggio di scegliere
I primi giorni furono un vortice di parole incomprensibili, odore di metropolitana e panini sbocconcellati sulle panchine dei giardini pubblici.
Dormiva su un materassino gonfiabile accanto alla scrivania di suo fratello e passava le giornate a visitare musei, a cercare annunci di corsi gratuiti o ateliers aperti e a disegnare ritratti nei bistrots.
Fu in uno di questi che conobbe Natalì, una donna sui cinquant’anni dai lunghi capelli color rame,  che l’aveva notata mentre disegnava su un tovagliolino di carta.
«Non male» le aveva detto sedendosi di fronte a lei senza chiedere il permesso. «Se vuoi imparare qualcosa, ti aspetto al mio studio, domani. 78, Rue des Écoles, terzo piano.»
L’atelier di Natalì era un caos magnifico. Tele ovunque, cavalletti, odore di trementina e sulla parete in fondo lo specchio convesso che inglobava tutta la stanza. C’erano altri giovani come Marta, seduti alla stesso tavolo, pronti ad accoglierla.
«Natalì non ti insegna solo a dipingere, ti costringe a guardarti dentro» le dissero. «Se vuoi fare arte, dice, devi essere onesta con te stessa.»
All’inizio, Marta pensava che fosse tutta una posa, ma poi cominciò a capire e quando una sua tela venne criticata davanti a tutti, non si sentì  umiliata e invece di dire volevo solo avere più tempo, accettò la critica e si sentì viva. Qualcuno la prendeva finalmente sul serio.
Un giorno, Natalì la portò con sé a un’esposizione collettiva in un centro culturale di periferia.
«Tu non esponi ancora» le disse «ma impara a guardare. Vedi questa tela? Verde muschio, il sottobosco dei sentimenti.» aggiunse sfiorando il dipinto.
Marta vide un quadro enorme, senza cornice, pieno di colori, potente. Sentì come se qualcosa la colpisse allo stomaco.
Quella notte dipinse fino all’alba. Mise sulla tela il volto di sua madre che non la capiva, gli occhi severi di suo padre, la paura di non farcela e la speranza di riuscire.
Il giorno dopo la portò a Natali.
«Guarda» le disse « lo chiamerò le crepe dell’amore
Natalì non disse una parola per cinque minuti. Poi si tolse gli occhiali e la guardò.
«Finalmente» sussurrò.
Marta non divenne famosa ma, un mese dopo, partecipò alla sua prima collettiva. Due persone si fermarono a lungo davanti al suo quadro e un’altra le disse che l’aveva fatta piangere.
Quando uscì dalla mostra, cadeva la neve. Parigi era ancora la stessa: caotica e indifferente, ma Marta camminava con un altro passo. Non sapeva ancora dove sarebbe arrivata ma per la prima volta, non aveva più voglia di tornare indietro.

 §§§

 


ASPETTIAMO I PROSSIMI RACCONTI...



Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle





lunedì 26 maggio 2025

Numero 474 - Racconto terzo classificato Masterbook seconda edizione 2025 - 26 maggio 2025



E siamo arrivati al terzo racconto classificato, della seconda edizione del Masterbook 2025. 
Nei numeri precedenti, potrete leggere anche il racconto vincitore e il secondo classificato.

Andiamo a svelare il volto dell'autrice del terzo racconto sul podio?


Giovanna Agata Lucenti, già autrice di Edizioni Convalle con la silloge poetica "Quando piccole storie si vestono di poesia".


Poetessa da sempre, con la sua penna raffinata e piena di emozioni, scrive anche racconti da anni, che l'hanno portata alla vittoria anche in altri premi letterari.

E anche questa volta si è piazzata nella rosa dei primi tre.

Ma andiamo a leggere! Eccolo qui.


LE FERITE DEL CUORE

Capitolo uno
La consapevolezza

 

Quante storie può contenere uno sguardo?
Quante vite di continuo sfiorano i giorni della nostra esistenza?
Queste e altre domande si accavallavano nella mente di Teresa, mentre tornava a casa dopo la consueta ed estenuante giornata  al supermercato dove lavorava come cassiera.
Non era tanta la strada da percorrere per arrivare alla sua abitazione, ma quella sera la donna non aveva nessuna fretta di rincasare e chissà perché si sentiva più sola del solito.
Si era trasferita da qualche anno in città, lasciando il paesino dove era nata e aveva vissuto fino ad allora.
Certe direzioni vengono dettate più dal cuore che dalla mente e Teresa sapeva bene ciò che lasciava, ma aveva avuto più che mai bisogno di cambiare aria, di sfuggire a una mentalità opprimente; o forse voleva solo nascondersi in mezzo a volti sconosciuti.
Lasciare la casa dei genitori era stato l’unico modo di provare a sé stessa di potercela fare da sola e non dovere rendere conto a nessuno delle sue scelte, del suo modo di vivere; si era sentita più forte e realizzata. 
Fatto sta che tutto questo cominciava a non bastarle più e le giornate sembravano scorrere tutte uguali portandosi via, poco alla volta, tutta la gioia e l’entusiasmo che avevano contraddistinto il primo periodo vissuto da sola.
Appena rientrata, aveva appoggiato sul tavolo la spesa fatta durante una pausa al supermercato dove lavorava, avrebbe dovuto iniziare a cucinare ma infine era sprofondata sul divano con il solito panino preparato alla svelta e una birra.
Per un po’ le avrebbe fatto compagnia una nuova puntata di qualche serie che stava seguendo e poi, chiuse le persiane, sarebbe andata a dormire, dopo avere letto qualche pagina del libro poggiato da tempo immemorabile sul comodino.
Insomma, la monotonia di una vita degna di un’anziana signora, non certo di una donna appena trentenne.
Ma era questo che aveva con forza desiderato per sfuggire allo squallore di una falsa esistenza, di un amore che si era rivelato per quello che era: un’enorme bugia!
Gli si era data con tutta sé stessa, credendo a tutto ciò che le diceva, bevendosi in maniera letterale tutte le stronzate che le sussurrava all’orecchio, salvo, dopo un momento, fare il cascamorto con la prima venuta.
Si chiamava Angelo e mai nome era stato meno appropriato.
Era un tasto che, se solo sfiorato, faceva ancora male, ma aveva avuto la forza di chiudere tutte le porte e andare avanti, anche se lui le aveva spergiurato che, per lei, sarebbe stato capace di cambiare.
Teresa non aveva più voluto saperne, e quel periodo di preparativi per un matrimonio, che poi non si era celebrato, restava ancora il suo peggiore incubo.
Genitori, parenti, amici si erano prodigati per starle vicino, qualcuno le aveva anche consigliato di chiudere un occhio, perché in fondo non è successo niente d’irreparabile, che vuoi che sia una scappatella prematrimoniale… Così dicevano, e a Teresa veniva la nausea: non l’avevano trovato loro a baciarsi dietro il portone con la vicina di casa, mentre la credeva al negozio per la prova dell’abito da sposa!
Se quel giorno la sarta non avesse deciso di farsi beccare da una brutta intossicazione, Teresa sarebbe andata avanti ignara di tutto e magari l’epilogo, dopo un po' di tempo, sarebbe stato lo stesso. Ma molto meglio non avere calcato il suolo di quella chiesa che fin da piccola l’aveva vista ricevere i primi sacramenti. Senza dubbio le era andata di lusso.
Teresa si era meravigliata di sé per la freddezza e la lucidità con le quali era riuscita a gestire la situazione, era fiera di essere riuscita a lasciarsi tutto alle spalle: i quasi dieci anni di fidanzamento, la casa dei genitori, il suo paese.
Si era trasferita nella grande città e lì aveva iniziato un nuovo capitolo della sua vita. Aveva trovato lavoro ed era riuscita anche a riprendere gli studi universitari interrotti da tempo.
In breve, si era fatta benvolere da tutti; quella ragazza dai capelli di un rosso dorato e dagli occhi verdi non passava certo inosservata, ma era il suo buon carattere e la grande disponibilità verso gli altri che la rendevano speciale.
Al lavoro non si risparmiava e aveva una parola gentile per tutti, anche i clienti la trattavano come una persona di famiglia. Lei, dal canto suo, era sempre sorridente e svolgeva il suo lavoro con grande puntualità e precisione.
Le piaceva quel lavoro che la metteva ogni giorno in contatto con le persone più svariate, ormai riconosceva i volti e i nomi dei clienti abituali del quartiere e avrebbe potuto anche elencare i loro gusti; non era raro raccogliere anche le loro confidenze fra una spesa e l’altra.
Era come un viatico per lei non pensare alle proprie vicissitudini e immergersi nei problemi degli altri; certo, non poteva risolverli, ma aveva capito che le persone vogliono soprattutto essere ascoltate e questo bastava per guadagnarsi la simpatia di giovani e anziani.
Ecco il perché delle riflessioni scaturite quel giorno dalla sua mente, mentre tornava a casa.
Era come se qualcuno le suggerisse di dare il giusto peso a quello che le era successo e che in fondo nella vita sono altri i veri problemi.
Si era riscoperta un’anima osservatrice e, conoscendo ormai troppo bene gli abituali avventori del negozio, riusciva a cogliere i loro cambiamenti d’umore, le giornate difficili e anche le loro sofferenze.
Aveva ancora negli occhi il viso di Adele.
Quella mattina la ragazza era entrata al supermercato con dei vistosi occhiali neri e, dopo avere sistemato il bambino nel seggiolino del carrello, aveva fatto la spesa in maniera frettolosa, posizionandosi, poi, alla cassa di Teresa; l’aveva salutata in maniera sfuggente, senza attardarsi come le altre volte a scambiare qualche parola. Non si era nemmeno accorta che Teresa porgeva la solita caramella al bambino, che non avendola potuta afferrare perché trascinato dalla madre, piangeva disperato.
Sapevano tutti, nel quartiere, che Adele aveva un compagno non certo facile da gestire, ma quello era un tasto che la ragazza non toccava mai volentieri e Teresa l’aveva capito.
Seduta sul divano, la donna non poteva fare a meno di pensare a quale genere di esistenza conducesse quella ragazza, con un uomo violento e un bambino da crescere.
Come avrebbe potuto aiutarla? Mentre ci pensava, la stanchezza l’aveva vinta e, come al solito, si sarebbe addormentata davanti allo schermo; presto si sarebbe trascinata nella camera da letto, anche se non l’attirava molto l’idea di infilarsi sotto le coperte ghiacciate.
Erano questi i momenti in cui le mancava di più la madre, lei non si sarebbe certo dimenticata di farle trovare lo scaldino dentro il letto. Sapeva bene che non era tanto lo scaldino in sé stesso che le mancava, ma proprio quel piccolo gesto che la faceva sentire accudita e importante per qualcuno.
Avrebbe dovuto chiamarla già da qualche tempo, e si era addormentata con il proponimento di farlo quanto prima il giorno dopo.
                                                    
 Capitolo due
L’importanza di esserci
 
Il suono delle casse, quella mattina, era più convulso del solito e, come in tutti i supermercati nel giorno di sabato, non si aveva un attimo per fiatare. Tutti di fretta, impazienti e con le facce tutt’altro che rilassate, facevano la fila per pagare con i carrelli stracolmi di acquisti.
«Signorina, questo prodotto è ancora in offerta o è scaduto il tempo?»
«Signorina, la tessera punti è finalmente disponibile o c’è ancora d’aspettare?»
In giornate come quelle, Teresa faticava a mantenere la solita gentilezza, ma bastava intravedere qualche volto conosciuto che le accennava un sorriso comprensivo e ritrovava la carica per andare avanti.
Per la signora Maria, che la conosceva ormai da tempo, il volto di Teresa era un libro aperto e, mentre infilava la sua spesa nelle buste, la guardava sorridendo.
«Giornatina niente male, eh? Se quando smonti vuoi passare da me, una tazza di camomilla non te la leva nessuno.»
«Grazie Maria, ma mi sa tanto che sceglierò qualcosa di più forte!»
L’anziana donna le mandò un bacio, sfiorandosi la bocca con la mano, e si allontanò seguita dallo sguardo riconoscente della ragazza.
Teresa, quel giorno, rientrò  più stanca del solito, ma pensando già alla domenica di riposo che l’aspettava.
Avrebbe voluto fare tante cose, ad esempio andare a trovare i suoi, che non vedeva da tempo; magari, appena arrivata a casa, li avrebbe avvisati del suo arrivo l’indomani.
Si sarebbe dovuta mettere in auto alle prime ore del mattino, ma  l’aspettava solo un tranquillo sabato sera in casa e quindi sarebbe andata a letto presto.
Ma non aveva fatto i conti con una visita inaspettata.
Seduti sugli scalini davanti alla porta di casa c’erano Adele e il bambino che dormiva fra le sue braccia.
La giovane donna aveva il viso disfatto dalle lacrime e un labbro gonfio.
«Adele!» riuscì a dire Teresa e, senza farle domande, le poggiò una mano sulla spalla. «Entra, presto! Fa freddo qui fuori.»
«Scusa, Teresa, non sapevo dove andare. Lui è uscito, ma quando tornerà sarà più ubriaco di prima, e io ho paura soprattutto per il bambino. Ho provato a resistere, a credere ai suoi giuramenti, ad aspettare un cambiamento, ma non posso più rischiare. Diventa una bestia, ho paura per mio figlio…»
La ragazza continuava a parlare come un fiume in piena, tremando e in evidente stato confusionale; non aveva portato niente con sé, era scappata nel senso letterale del termine.
«Va bene, Adele, ma ora calmati, entra e siediti un attimo. Qui sei al sicuro, okay?»
Teresa le parlava cercando il suo sguardo. Gli occhi della ragazza erano ancora atterriti e si guardava intorno come se si aspettasse che qualcuno sbucasse all’improvviso da un momento all’altro.
Indossava un vestito da casa e il piccolo giubbotto copriva a malapena solo il bambino.
Ci volle un po' di tempo perché ritrovasse il controllo e un pianto silenzioso fu il segnale della fine di una grande paura. Teresa aveva preso Mattia, il bambino, dalle braccia della madre e l’aveva coricato piano piano sul divano, fra i cuscini.
«Calmati adesso, Adele, ti ha vista qualcuno mentre venivi qui?»
«No, non mi sembra e lui non sa che siamo amiche.»
«Bene. Ora io devo uscire a prendere il necessario per il bambino, non mi sembra tu abbia portato qualcosa con te… La farmacia è a due passi, non mancherò per tanto, tranquilla.»
Per un attimo Teresa vide di nuovo la paura negli occhi della donna, ma con un sorriso e una carezza cercò di rassicurarla e, chiudendo la porta dietro di sé, attraversò la strada di fretta ed entrò in farmacia, appena in tempo prima della chiusura.
Mentre tornava a casa, l’insegna luminosa della caserma dei Carabinieri colpì il suo sguardo e capì che quanto prima la vicenda doveva essere portata a conoscenza di chi di dovere; avrebbe parlato con Adele per convincerla a sporgere denuncia, ora non era più sola ad affrontare il suo dramma.
Rientrata a casa, trovò Adele che dormiva vicino al suo bambino, era crollata e aveva il viso di chi avesse ritrovato infine un po' di pace.
Teresa pensava che il compagno di Adele si sarebbe presto messo alla ricerca della ragazza e del figlio, e per questo era consapevole che la cosa più urgente da fare fosse portare al più presto i due in un posto sicuro.
Quale occasione migliore della visita ai suoi genitori?
Il paese si trovava abbastanza lontano dalla città e avrebbe potuto essere un rifugio ideale per Adele.
Partirono così la mattina presto e arrivarono dopo un viaggio tranquillo di quasi due ore.
Mattia era stato buonissimo e spesso si rivolgeva a Teresa chiamandola Tetè, tirandole la maglietta da dietro il sedile e  facendo sorridere le due donne.
Teresa, pur in apprensione per la situazione, pensava che non si era sentita così viva da tempo e, avvicinandosi al suo paese, aveva sempre più la consapevolezza di quanto le fosse mancato.
Riconosceva gli alberi e le stradine che l’avevano vista bambina con la sua immancabile bicicletta e capiva di averne sentito la mancanza, di avere lasciato un pezzo di sé in quei luoghi cancellati quasi a forza dalla sua mente.
Dallo specchietto retrovisore osservava il viso di Adele e mai come in quel momento si era accorta di quanto fosse giovane, di come avesse tutta la vita davanti. I lividi sul viso le davano un’aria tragica ma sarebbero prima sbiaditi e poi svaniti del tutto con il tempo. Per le ferite del cuore ci sarebbe voluto di più, ma la serenità e il sorriso del suo bambino avrebbero di certo operato il miracolo.
Appena imboccata l’ultima curva, si sentì stringere il cuore rivedendo la sua vecchia casa dai tetti di un rosso stinto dal tempo e le finestre verdi che ogni anno il papà ridipingeva; di colpo si ricordò che non aveva nemmeno avvisato i genitori del suo arrivo.
Si annunciò con un timido suono di clacson. A quell’ora del mattino i suoi dovevano già essere svegli da un pezzo e un leggero profumo di caffè aleggiava nell’aria, man mano che le donne si avvicinavano. Mattia era voluto scendere dalle braccia della madre e ora camminava incerto sulla ghiaia del vialetto che conduceva alla piccola porta di casa.
Adele camminava attaccata a Teresa, guardandosi attorno e aspettando con ansia il momento in cui l’uscio si sarebbe aperto, non sapendo che tipo d’accoglienza avrebbero avuto.
Ma la signora Tina aveva riconosciuto il clacson della macchina della figlia e già le correva incontro, asciugandosi le mani nel grembiule, mentre a voce alta diceva: «Antonio, ma è la nostra Teresa, non ci senti?» 
L’uomo, arrancando dietro di lei, si grattava la testa spostandosi di lato il cappello che usava per proteggersi dal sole della campagna.
«Ma tu guarda se questo è il modo d’arrivare, senza nemmeno avvertire prima, è così che si ragiona?» ma intanto abbracciava la figlia e stringeva la mano ad Adele, mentre Mattia si nascondeva dietro la gonna della madre. Teresa era riconoscente ai genitori per non avere fatto tante domande e per la cordialità nei confronti di Adele, senza parlare del piccolo che li aveva già conquistati.
«Che bel bambino! Entrate, il caffè è ancora caldo.»
Teresa aveva dimenticato quanto fosse accogliente la sua cucina, pur così semplice…
Quante volte aveva scostato quelle tendine a quadretti rossi dalla finestra, per vedere se era arrivato Angelo... Ma cosa andava a pensare? Non era questo il motivo che l’aveva portata di nuovo a casa.
Bisognava mettere al corrente della situazione i suoi genitori. Lei sarebbe potuta rimanere poco, ma Adele aveva bisogno di più tempo.
Sedute attorno al tavolo con Mattia che sbriciolava dei biscotti in una tazza di latte, le due donne cercarono di spiegare cos’era successo. In verità, era Teresa a parlare, mentre Adele si limitava ad annuire tenendo gli occhi bassi, tanto che a un certo punto il papà era sbottato dicendo: «Mica ti devi vergognare tu, è quel farabutto che dovrebbe scomparire dalla faccia della terra!»
«Ma non è stato sempre così…» aveva sussurrato Adele, e tutti si erano girati a guardarla. «Volevo dire che magari ha bisogno d’aiuto, è cresciuto senza i genitori, affidato agli zii che lo hanno solamente sfruttato. Quando ci siamo conosciuti, era pieno di buone intenzioni, aveva un lavoro stabile da carpentiere, ci volevamo bene e siamo andati a vivere insieme. Anch’io ho perso i miei genitori da piccola e lo capivo se qualche volta si dimostrava brusco con me. Poi l’hanno licenziato e io ero già incinta di Mattia. Siamo andati avanti per un po’ con la piccola liquidazione che gli avevano dato, ma ha iniziato a bere e tutto è precipitato. Nessuno, vedendolo così, gli ha più offerto un lavoro serio. Stavamo andando avanti con quel poco che guadagnavo facendo le pulizie presso lo studio di un avvocato, che mi permetteva anche di portare il bambino con me. Ma ogni suo ritorno a casa ormai si era trasformato in un incubo e sono scappata. Dovevo farlo, soprattutto per Mattia.» 
Aveva parlato di getto, con la voce rotta e con la disperazione di chi cerca in tutti i modi di dare e darsi una spiegazione del perché una persona sulla quale aveva riposto tutta la propria fiducia, si fosse trasformata in un essere violento e irrazionale.
I genitori di Teresa l’avevano rassicurata sul fatto che poteva stare con loro tutto il tempo che voleva; la stanza della figlia era spaziosa e oltre a un grande letto matrimoniale aveva anche un comodo divano.
Insomma, neanche nelle più rosee aspettative, Adele si era augurata tanto.
Teresa, con la sua dolce disponibilità, fin dal primo giorno in cui l’aveva vista al supermercato, le aveva suscitato un senso di confidenza, di familiarità, sapeva che su di lei poteva contare. 
I suoi genitori, poi, l’avevano subito accolta senza porsi troppi problemi e lei pensava già a come poterli ringraziare.
Di una cosa era certa: non sarebbe stata più sola.
 
Terzo capitolo
Un nuovo inizio
 
Era stato un pranzo speciale.
La mamma, come sempre, aveva dato il meglio di sé, e anche Mattia aveva mostrato di gradire i piatti semplici ma gustosi della donna. Antonio, il papà di Teresa, si era seduto vicino al bambino e, all’occorrenza lo imboccava, anche se si divertiva a guardare come s’impiastricciava mentre mangiava da solo. Teresa osservava i genitori e rifletteva su quanto fosse stata fortunata ad averli, era proprio vero che molte volte diamo per scontate le cose che abbiamo e non ci accorgiamo del grande valore che hanno, se non quando qualcosa o qualcuno ce ne fa prendere coscienza.
Sarebbe partita il giorno successivo per ritornare al lavoro, ma sapeva già che non avrebbe potuto restare troppo a lungo senza vedere i genitori come una volta.
Grazie ad Adele, aveva riflettuto a lungo sulla sua scelta di allontanarsi e sui motivi che l’avevano portata a questa decisione. Adesso le sembravano cose talmente futili e lontane che quasi si vergognava di sé stessa. Quella donna aveva vissuto l’inferno, eppure era ancora pronta ad assolvere e giustificare chi le aveva fatto del male, mostrando una maturità e una misericordia che lei non aveva dimostrato certo di avere. Aveva voltato le spalle a tutto e a tutti, aveva chiuso il suo cuore a ogni possibilità di rinascita.
La sera, sedute vicine nel portico di casa, mentre i genitori e Mattia già dormivano, le due donne parlarono a lungo della loro vita, e Adele rimproverava Teresa per ciò che pensava di sé stessa.
«Non è vero che hai chiuso il tuo cuore, hai tanto amore da dare e io ne sono la prova. Hai saputo accogliermi senza se e senza ma e di questo te ne sarò grata in eterno.»
E si erano strette le mani restando ad ascoltare il silenzio della sera.
Il giorno dopo, Teresa fece ritorno in città, in tempo per iniziare il turno di lavoro. 
La mattina era volata e al ritorno a casa l’aspettavano tante cose da sistemare, voleva anche preparare una materia d’esame e aveva già programmato di portarsi i libri quel fine settimana a casa dei genitori; magari, pensava, sarebbe riuscita a combinare qualcosa.
Mentre tornava a casa, aveva avuto l’impressione di essere seguita e quando un uomo aveva girato l’angolo insieme a lei, ne ebbe la certezza. Le si era parato davanti, non poteva essere che lui.
«Non voglio spaventarti» e si era seduto sul marciapiede, tenendosi la testa tra le mani. Il viso di chi non aveva dormito molto e gli abiti spiegazzati.
«Io sono Nico, tu devi essere Teresa.»
La ragazza aveva annuito con la testa, senza parlare.
«Adele mi ha parlato tanto di te e della tua gentilezza, sei quella che dà sempre le caramelle a Mattia…» 
Era rimasto in silenzio per un po’, come per avere il tempo di trovare le parole giuste.
«Adele se n’è andata e penso tu lo sappia. Stai tranquilla, non voglio prendermela con te, non voglio sapere nemmeno dov’è, mi devi dire solo se ora lei e il bambino stanno bene. Solo questo.»
«Sì, Nico, stanno bene e tu devi lasciarli in pace.»
L’uomo teneva la testa bassa, l’atteggiamento di chi sa di non potere chiedere niente.
«So di essermi comportato come una bestia e che non potrà mai perdonarmi, non mi perdono nemmeno io e ho paura di non riuscire a cambiare, per questo è meglio che stia lontano da me. Sto iniziando ad andare in un centro recupero per alcolisti, mi hanno trovato anche un piccolo lavoro. È comunque un inizio. Adele è stata fortunata a incontrarti. Grazie...»
E se n’era andato così, le mani nelle tasche e senza nemmeno aspettare che Teresa gli rispondesse.
La ragazza lo aveva guardato allontanarsi, ripensando alle parole di Adele, non è stato sempre così…
Quel fine settimana, Teresa tornò al paese, aveva preso anche qualche giorno di ferie e ne avrebbe approfittato per studiare e godersi la vicinanza dei genitori, di Adele e Mattia.
Si sentivano spesso al telefono e capiva quanto i suoi si stessero sempre più attaccando alla ragazza e al bambino. Adele, dal canto suo, era un valido aiuto per la signora Tina che, ormai avanti con gli anni, non disdegnava di essere aiutata. Mattia trascorreva buona parte della giornata anche con Antonio, il suo gioco preferito era andare nel pollaio a rincorrere le galline, sotto lo sguardo divertito dell’uomo e mai come ora, alla figlia, il padre era apparso più arzillo e rinvigorito.
Teresa, poi, aveva raccontato ad Adele dell’incontro con Nico e delle sue parole; aveva visto il viso della ragazza addolorarsi. I lividi erano scomparsi quasi del tutto, ma ci sono altri segni che rimangono in maniera indelebile negli sguardi delle persone e appannano gli occhi con una profonda tristezza.
Nonostante questo, Adele sperava nel profondo del cuore che un giorno il suo Nico facesse ritorno.
 
Il pomeriggio dell’ultimo giorno di ferie, Teresa era scesa in paese per sbrigare delle commissioni per la mamma, non erano tante le cose che doveva acquistare e aveva preferito andare in bicicletta.
Il cielo era diventato grigio e minacciava di piovere, la ragazza si stava affrettando a sistemare le buste quanto meglio possibile nel cestino della bici, quando una voce maschile conosciuta l’aveva fatta trasalire per un attimo.
«Teresa, forse è meglio che ti dia un passaggio se non vuoi arrivare a casa zuppa di pioggia, rischi di prenderti un malanno.»
«Angelo! Mi hai fatto spaventare… Che ci fai qui?»
«Io ci vivo e tu?»
La guardava divertito come solo lui sapeva fare.
«Ho trascorso qualche giorno con i miei, domani torno in città.»
Silenzio.
«Vieni, mettiamo la bici nel cofano, ti accompagno io; sempre se non ti dispiace...»
«Va bene, grazie.»
Come sembrava strano, a Teresa, ritrovarsi accanto ad Angelo dopo tanto tempo, era sempre bello e qualche rughetta in più agli angoli degli occhi gli conferiva ancora più fascino. Aveva distolto lo sguardo dal suo viso quando aveva iniziato a parlarle.
«Come stai? Ti trovi bene in città? Non sei cambiata per niente.»
«Anche tu… Sto bene, faccio un lavoro che mi piace e ho ripreso l’università,   e tu?»
«Sono riuscito a laurearmi in ingegneria e trascorro molto tempo all’estero, ho comprato una piccola casetta vicino ai miei e appena posso ritorno qui; ogni volta passo a trovare anche i tuoi. Ho tanti ricordi belli…»
Altro silenzio.
Il finestrino socchiuso aveva fatto rabbrividire la ragazza che si era stretta di più sulle spalle la piccola giacchetta di lana.
Tante domande restavano sospese nell'aria e nessuno dei due le proferiva.
Fu Angelo a rompere ogni indugio.
«Vivo solo e non sono sposato, questa fesseria l’avrei potuta fare solo con te.»
«Anch’io» aveva detto in maniera impercettibile Teresa.
Nel frattempo erano arrivati e l’uomo aveva fermato la macchina dove lo faceva di solito, molti anni prima.
Mentre Teresa stava scendendo, le aveva preso la mano e guardandola negli occhi le aveva sussurrato: «Le persone cambiano, Teresa, ricordalo!»
Sì, lei lo sperava anche per chi ormai faceva parte della sua famiglia; doveva decidersi a riparare le vecchie ferite, riaprire quel cuore che le era sembrato chiuso per sempre a certe emozioni.
Aveva ripreso la bicicletta e si era avvicinata a casa, poi si era fermata voltandosi a guardare ancora una volta Angelo che aspettava di vederla entrare.
Gli fece un cenno con la mano. 
Lui non aspettava altro.

§§§

Complimenti a Giovanna Agata Lucenti per questo bel racconto e complimenti di nuovo alla seconda classificata, Valentina Ciocca e alla vincitrice, Linda Silvia Scarpenti.

Complimenti anche alle altre quattro finaliste e a tutti i partecipanti di questa edizione del Masterbook.

Abbiamo giocato, ci siamo divertiti, emozionati, in una girandola di esperimenti di scrittura che ho pensato per voi.

Il Masterbook chiude, e tornerà quando meno ve lo aspettate, alla ricerca di concorrenti coraggiosi e abili con la penna.



Alla prossima

dalla vostra

Stefania Convalle